Omaggio a Franco Ferrarotti che intervistai nei miei anni romani
Franco Ferrarotti è morto qualche giorno fa all’età di 98 anni. Mente arguta, visionario, padre della sociologia moderna in Italia. Aveva detto che per essere un buon sociologo bisogna stare in mezzo alla gente, essere sul campo e non dietro una cattedra. Nonostante questo, lui per davvero ebbe la prima cattedra in Sociologia in Italia nell’anno 1961 presso la Sapienza di Roma. Avevo incontrato Franco Ferrarotti in due occasioni per due interviste che gli avevo chiesto sul finire degli anni ’90. Stavo raccogliendo testimonianze sui temi dei miei libri. Ora che il più noto ed illuminato sociologo italiano è scomparso si può rimarcare a buon diritto per capire anche tutta la bellezza del suo pensiero filosofico (Franco Ferrarotti si era laureato in Filosofia prima di essere un sociologo) l’incontro e l’influenza, nel corso dei suoi anni giovanili, di Adriano Olivetti.
Data 19 marzo 2020 un testo di Franco Ferrarotti che aveva scritto di Adriano Olivetti. «Debbo dare – si legge – una testimonianza che riguarda tutta la popolazione di Ivrea ed i 40 sindaci del Canavese, a cui mando il mio affettuoso saluto. Nel 48 io ero un ragazzaccio, avevo incontrato Adriano a casa di Gino Levi, il fratello medico di Natalia Ginzburg, era presente anche Gigino Martìnoli, va detto che Lui mi aveva fatto un’offerta che non si poteva rifiutare, da sembrare quasi mafiosa, e volevo capire come mai, mentre egli aveva scritto nel ’44 dalla Svizzera l’Ordine politico delle Comunità, la Olivetti non era stata devastata come la Fiat per esempio.
Non c’erano i nazisti? “Si c’erano, c’erano, risponde Adriano. Son venuti anche da noi. Il povero Jervis venne fucilato davanti alla fabbrica”. Per dare, beninteso, il buon esempio, meglio, a fini pedagogici. I tedeschi, nazisti. Come mai? E questa è la testimonianza che mi fece e che credo non abbia trovato posto nei libri, per ora. C’erano in fabbrica, pronte per il mercato, quasi 5.000 macchine per scrivere. I tedeschi arrivavano con l’idea di rapinare tutto quello che era possibile rapinare. La fabbrica diede queste 5.000 macchine alla popolazione di Ivrea. Anonimamente. La popolazione nascose in casa tutte queste macchine. Finita la guerra le restituisce tutte integre alla Ditta. Mi spiega Olivetti che proprio per questo atto meraviglioso della popolazione eporediese la Olivetti riesce a battere la Adler, la Remington in America, la Oimpia, e su scala europea e poi su quella mondiale, è in grado di essere la prima fabbrica al mondo di macchine per scrivere.
Questa veramente è una testimonianza che faccio con grande commozione, anche perché ricordo la povertà degli eporediesi, i 40 sindaci che non riuscivano a far quadrare i bilanci, e che hanno restituito tutto questo tesoro alla loro fabbrica, perché si curasse. Lui aveva capito anche, non era un sogno ma un progetto razionale, il potenziale sviluppo dell’elettronica applicata. A Borgo Lombardo aveva già messo in piedi, a capo l’Ing. italo cinese Mario Tchou a cui va il mio affettuoso ricordo, una sorta di laboratorio pionieristico con il figlio Roberto. Morto Lui, sul cadavere ancora caldo discesero gli avvoltoi, che cercavano gli investimenti fatti in quella direzione. Ho l’impressione, per i miei lunghi viaggi e ricerche in America, che vi sia stato un preciso veto politico accettato dalla nostra parte politica, così come ha accennato il Prof. Sapelli per quanto riguarda Felice Ippolito circa il nucleare, credo che siamo di fronte ad un dirottamento di fondi verso una enorme speculazione finanziaria. Olivetti era contro in maniera biblica ad ogni speculazione finanziaria che fa soldi con i soldi, sfruttando la congiuntura di alti e bassi, sulla pelle delle persone. Era contro quel tipo di capitalismo. Mi diceva – questa è una sua testimonianza – il capitalismo ha vinto il socialismo dopo 50 anni di guerra fredda, ricordiamolo, ma il capitalismo va salvato dai cattivi capitalisti.»
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Mi piace ciò che ha scritto Renzo Guolo, anch’egli sociologo, su Franco Ferrarotti poche ore la sua morte. «Uno studioso capace di tenere uno sguardo alto sia nel campo della ricerca empirica, sia sul terreno dell’analisi teorica attorno alle grandi trasformazioni del nostro tempo. Ormai lontano, per ragioni anagrafiche, dall’accademia, non cessava anche in tempi recentissimi di stupirsi della scarsa conoscenza, da parte dei sociologi, dei classici della loro disciplina; così come della diffusione di un sapere sempre più concentrato su aspetti parcellizzati della realtà, destinato a oscurare quella connessione tra particolare e generale sulla quale aveva sempre posto l’accento nei suoi lavori. Trasformazione (o deriva?) legata ai mutamenti intervenuti nella stessa struttura del campo scientifico accademico – quello sociologico come altri – incline a premiare un conformismo scientifico basato sull’iperspecializzazione settoriale. Dimensione che, alimentando un certo tipo di attese tra i ricercatori in competizione, riproduce un determinato tipo di approcci e studi anziché altri.
Meccanismo in parte attribuibile al fatto che, sosteneva Ferrarotti, la sociologia è stata vittima del suo successo. Almeno in ambito accademico. Perché ciò che balza agli occhi è invece lo scarso impatto dei sociologi sul terreno della sociologia pubblica, della loro rilevanza nella capacità di incidere significativamente nella discussione collettiva sulle grandi questioni del nostro tempo.»
«Procedeva – si è scritto di Francesco Ferrarotti in questi giorni – per intuizioni fulminanti, attingeva ai fatti di cronaca, si nutriva di stimoli culturali delle più diverse provenienze. Non per nulla, del resto, amava definire il suo approccio sociologia critica rifiutando di sottoporlo alle rituali classificazioni accademiche o a quelle partizioni subdisciplinari ispirate a logiche concorsuali più che a reali esigenze scientifiche. Anche sotto questo profilo Ferrarotti è stato insieme un padre fondatore della nostra ricerca sociale e un osservatore outsider curioso del mondo e sanamente irriverente. Amava esplorare territori sconosciuti o poco frequentati, avvertendo i compagni d’avventura che la ricerca più autentica e più feconda è quella che si sottrae al conformismo, alle logiche di mestiere e alla pura perpetuazione di saperi obsoleti.»
Mi piace pensare che qualcosa di Franco Ferrarotti, del suo approccio ai temi dell’attualità, della sua indagine sociologica, della sua irriverenza possa restare. Avevo letto nei suoi occhi, sul finire degli anni Novanta tutto il suo entusiasmo quando sosteneva le sue idee sul mondo che stavamo vivendo. Fu quello che ho conservato in tutti questi anni e che conservo ancora.
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