Gigi Proietti, storia di un attore nato nel cuore di Roma

In una delle sue ultime interviste più lunghe sulla città di Roma, la sua città tanto amata rilasciata come testimonial alla Guida di Repubblica ai Piaceri e ai Sapori di Roma e del Lazio del 2019, Gigi Proietti proponeva uno spaccato autobiografico di grande efficacia. Egli riannodava i fili di un ricordo profondo e vivo. Dagli anni dell’infanzia a quelli della giovinezza, dagli studi dell’obbligo alle prime esperienze professionali, le abitazioni, la famiglia, gli amici. Iniziò dalla sua nascita Gigi Proietti


“Sono nato a via Giulia, ma per favore non mi domandate niente di lì, perché non ricordo nulla. Sono andato via con la mia famiglia da quell’appartamento quando avevo nove mesi. Poi ci siamo trasferiti a via Annia, una stradina del Celio, accanto all’Ospedale militare. Lì andavo a scuola alle elementari alla Vittorino da Feltre e il primo ricordo che mi porto ancora appresso è un odore, l’odore dei libri, mescolato a quello della merendina che mia madre mi metteva dentro la cartella. Avevo due cartelle nere, rigide, di una fibra un po’ strana, che si potevano anche mettere a tracolla. E mi viene ancora in mente, nonostante fossi piccolo, la vergogna di mettermi il grembiule e il fiocchetto, il fiocco insomma. Non l’ho mai sopportato. Ero un bambino e a Roma nella primissima mattina era consentito di passare addirittura davanti a piazza del Colosseo per andare sulla via del mare”. Gigi Proietti è un vulcano di parole, anni cruciali per la storia d’Italia, il Novecento, il suo percorso umano e familiare.

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 “Da via Annia – riannodò due anni fa Gigi Proietti nel suo racconto a ritroso – abbiamo cominciato a girare e siamo andati ad abitare vicino via Veneto, in un appartamento di fortuna, dopo la guerra. Ci siamo stati due, tre anni e ho conosciuto un luogo che ricordo benissimo e che poi è uno strano ritorno, Villa Borghese, perché andavo al cinemetto, che si chiamava dei Piccoli o Topolino e stava vicino alla Casina delle Rose, dove d’estate facevano il varietà e da dietro un canneto, avevo nove anni, vidi tra le canne, c’era una specie di recinto di piante, Billi e Riva, che facevano lo spettacolo. Però non sentivamo bene. Un posto dove sono tornato adesso, dato che ho avuto la fortuna di incontrare un sindaco lungimirante, che era Veltroni, che capì l’importanza di mettere su un teatro a Villa Borghese, il Globe Theatre”.

Tuttavia Gigi Proietti non potette calarsi nel clima pieno de la Dolce Vita come lui stesso ebbe a precisare. “No, subito dopo eravamo andati ad abitare in periferia, al Tufello, perciò non avrei potuto assistere alla Dolce Vita, perché ero troppo piccolo. Ma Villa Borghese è importante, ero rimasto colpito dalle fontane e soprattutto da quella specie di muffa verde che fanno quando sono a secco. La vedo ancora adesso e anche le statue un po’ sbrecciate della villa. Era molto affascinante per me perché non ne capivo tanto le ragioni, ma sono immagini che mi sono rimaste impresse. Come le fontane di piazza Farnese, che un tempo stavano dentro Caracalla, pochi lo sanno ma è così. Poi quando stavo al Tufello la vera Roma non l’ho più frequentata per un po’ di anni perché praticamente la borgata era in costruzione ed era lontanissima. Oggi sembra molto più vicina, ma allora bisognava prendere due autobus per arrivare fino al Centro, il 36 e il 60, tutta via Nomentana”. Da via Tufello dov era arrivato Gigi Proietti partiva ogni giorno per andare a scuola durante gli anni delle superiori.

“Il liceo l’ho fatto all’Augusto sulla via Appia, perché poi dal Tufello ci eravamo spostati con la mia famiglia nella zona dell’Appio Latino, quindi la scuola più vicina era l’Augusto, una scuola pubblica, e naturalmente era in un periodo che precedeva il ’68, per cui non ho conosciuto le manifestazioni della contestazione. C’erano ancora professori educati all’era fascista, qualcuno ci sarà ancora credo”. Un racconto che mostra per intero la verve ironica di Gigi Proietti. “C’era un certo Collina che ai primi appelli che facevano all’inizio di scuola non rispondeva, perché non c’era. E questo Collina non è mai venuto. E allora c’era sempre qualcuno che, quando il professore chiamava “Collina”, diceva “presente”. Facevamo a turno. Oggi mi piacerebbe conoscerlo questo Collina. Ricordo una cosa importantissima. Non mi vergogno di dirlo. Allora c’erano i fagottari. E anche la mia famiglia ogni tanto faceva la fagottara, quando andava fuori la sera. Mia madre diceva “stasera andiamo a cena fuori”, però la cena te la portavi. D’estate specialmente dove c’era la pergola. Si prendeva il vino e casomai forse un primo, se volevi, sennò portavi tutto da casa”. Poi nel racconto entra una trattoria che era all’Appio Latino.

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“Era all’Appio Latino – ricorda Gigi Proietti dove c’era un cartello: “Accettanzi cibbi propi” accettanzi con la zeta, cibbi con due b e propri senza una r. Ed era una grandissima festa. Mia madre faceva le cotolette panate, però col sugo, perché le doveva mettere dentro una pentola e se non c’era il sugo s’attaccavano. E allora venivano come una specie di pizzaiola, diciamo così, accatastate una sull’altra, e arrivava il momento di mangiare. A volte, quando eravamo particolarmente ricchi, ci compravamo la pizza e poi le cotolette panate, una per una, mi raccomando, diceva mamma. E c’erano anche famiglie di amici. Questo m’è mancato poi all’improvviso, la conoscenza di altre persone, la comunità, il senso della comunità”. Comunità nella quale Gigi Proietti si calò da subito non avendo nessun vantaggio né “sponda” di sangue.

“No, parenti a Roma io non ce l’ho. La mia famiglia viene dall’Umbria e dall’alto Lazio, siamo semiburini insomma. C’era mia sorella, ma ancora non era fidanzata, però c’erano altre famiglie con le quali si poteva andare a fare queste uscite, che sostituivano le gite fuori porta dell’Ottocento. Prima c’erano le osterie, poi, per darsi un tono, le hanno chiamate hostarie, con l’h davanti”.

Un mondo si stava aprendo davanti all’attore che più di tutti ha saputo raccontare un’ironia arguta, il senso della scena, la capacità di raccontare la vita quotidiana sin dal suo esordio…

“Successe quando andavo all’università, ero un ragazzetto. Oggi ci sono tanti teatri, c’è la televisione, c’è una maggiora promozione dell’attività teatrale, anche se il teatro è sempre in crisi, ma comunque… Allora era una cosa molto lontana, anche dalla scuola. Non è che uno uscisse dal liceo sapendo qualcosa di teatro. Ma io andando all’università mi iscrissi al Centro universitario teatrale che si ricostituiva allora dopo la guerra, e mi presero, non so nemmeno perché. Onestamente, non sapevo fare proprio niente. E questa fu l’occasione che mi avvicinò poi al teatro perché ero incuriosito e ho cominciato ad andare a vedere degli spettacoli. La nostra era una scuola di teatro di tutti i ragazzi e quindi c’era un attimo di contestazione al sistema teatrale tradizionale, come sempre succede, difatti da quella scuola uscì addirittura Leo De Berardinis, Calenda, insomma noi giovani di allora. Il primo spettacolo che ricordo non era proprio il primo che ho visto, ma quello che mi colpì molto, uno spettacolo di Carmelo Bene, del quale poi sono diventato amico e con cui abbiamo fatto ditta insieme. E mi colpì tantissimo, anche se non è che riuscissi a fare una critica interpretativa, però aveva un fascino, lo sappiamo benissimo, già da allora. Faceva il Caligola di Camus, e poi ho cominciato ad andare, ho visto tanti spettacoli. Però per un due tre anni dopo la scuola io non partecipai più, perché dovevo laurearmi. E intanto la notte cantavo. Ho cantato in tutti i nigth di Roma, meno che all'”84″. Al Pipistrello, al Capriccio, alle Grotte del Piccione dei fratelli Gabrielli. Quando io cantavo, lì stava finendo la Dolce Vita e anche il night stava per diventare discoteca, a dir la verità ancora non discoteca, ma piano bar e poi discoteca. Vennero fuori i gruppi, i Beatles e tutto cambiò”.

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“A Roma ci sono due momenti fondamentali, il primo è quello del musical che ho fatto con Garinei e Giovannini, che mi proposero “Alleluja brava gente”. E di lì a non molto, dopo quattro anni, lo spettacolo che mi porto ancora dietro, che è “A me gli occhi please. Uno che ho frequentato era Gassmann, uno dei miei più grandi amici, anche se era più grande di me. Con lui abbiamo assaggiato parecchie cose. Ho una fotografia a casa in cui io e Vittorio facciamo una specie di ghigno e dietro stranamente, in un ristorante, non ce ne eravamo accorti, c’era la fotografia di Giovanni XXIII. E sembra che siamo in tre, è incredibile, è bellissima“.

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