Il parroco di San Pietro a Roma: così come l’ho vagheggiato una mattina dei primi di febbraio…

Il Cattolicesimo ha duemila anni di vita. Una storia che trova la sua prima pietra miliare nella Basilica di San Pietro a Roma, la cui costruzione iniziò nel IV secolo dopo Cristo quando l’imperatore Costantino decise di costruire una basilica nel luogo in cui l’apostolo Pietro era stato sepolto. Un lavoro che terminò nel 329 quando la sua costruzione fu completata. E non furono solo tutti i capolavori, i dipinti, le sculture, i pilastri policromi e ogni esemplare d’arte universale a fare nel corso dei secoli successivi e fino al 1600 inoltrato, di San Pietro quel che è oggi: il cuore pulsante del Cattolicesimo di tutto il mondo, un misto di spiritualità e di rappresentanza, d’imponenza e di sacralità ma anche di potere temporale che evoca tutte le trame degli umani e del divino. Le luci e le ombre, le fatiche e gli affanni, i sacrifici, le contraddizioni e le svolte di una testimonianza di vita e di fede che si vuole sempre limpida ed efficace da chiunque. Per questo ha bisogno di rinnovarsi e di testimoniarsi ogni giorno altrimenti diventa un mestiere tra i più sicuri e comodi del mondo d’oggi. Volle dirlo a suo modo partendo da sé stesso, il 18 maggio del 2013, e cioè appena poche settimane dopo la sua elezione, Francesco Bergoglio, il Papa d’origini italiane venuto a Roma da lontano. Una sfida quotidiana che tocca ogni cristiano: dal Papa al più piccolo e giovane dei battezzati. Passando per il parroco, magari di San Pietro, di cui ho vagheggiato, solo qualche giorno fa, ciò che qui proverò a scrivere…


di francesco de rosa


Una stima al ribasso dice che nella Basilica di San Pietro a Roma ogni anno ci vanno più di 11 milioni di visitatori. Molti ammirano l’arte indiscussa di quel luogo. Altri pregano. Altri restano estasiati allungandosi presso lo spettacolo unico dei Musei vaticani. Altri ancora cercano una conversione, restano in silenzio, si confessano. O arrivano lì per partecipare alle principali celebrazioni dell’anno liturgico. La fabbrica di san Pietro è pur sempre una macchina complessa. Ai primi di febbraio mi sono voluto fermare a metà della navata centrale dov’è la cappella del Santissimo Sacramento, così “solenne e fastosa”. Un luogo, quasi al riparo, da cui si accede attraversando il cancello in ferro disegnato da Francesco Borromini tra il 1629 e il 1630. Doveva essere una sagrestia – dicono le fonti – che però “mutò definitivamente la sua funzione nel 1638”. Oggi è il luogo del Santissimo esposto sotto il Ciborio di Gian Lorenzo Bernini. Mi sarò fermato un tempo che si è dilatato e lì ho vagheggiato attorno alla figura che nel mondo guida tutte le parrocchie di cui il Cattolicesimo si compone ovunque uguale.

La Treccani scrive che “pàrroco è un sostantivo maschile che prende origine, dopo il “bagno” nella lingua greca, [dal lat. eccles. (sec. 15°) parochus. In età classica, parŏchus come dal gr. πάροχος, derivazione di παρέχω «somministrare»). Era colui che per incarico dello stato forniva vitto e alloggio ai pubblici funzionarî di passaggio. L’accostamento alla parola parrocchia] (pl. –ci, meno com. –chi) arriva dopo quando il parroco diventa ovunque un sacerdote a cui, per nomina vescovile, è conferita in titolo una parrocchia, con la cura delle anime e con giurisdizione ordinaria e propria, benché subordinata all’autorità dell’ordinario del luogo. Il parroco ha il compito di amministrare i sacramenti, di effettuare le pubblicazioni matrimoniali, di assistere ai matrimonî, nonché di custodire e tenere aggiornati i libri parrocchiali (dei battezzati, dei matrimonî, dei morti; l’elenco dei fedeli, ecc.). In fondo è quasiparroco, nel diritto canonico, il sacerdote preposto, per nomina vescovile, a una quasi-parrocchia (v. parrocchia) ed è in genere equiparato a un parroco, da cui si differenzia per alcuni obblighi e per poche altre particolarità”. Sin qui la regola ed una procedura, il ruolo e le funzioni. Ma il parroco di San Pietro deve essere di più, suo malgrado. Deve sfidare la maestosità di questi luoghi per porsi, per primo, al servizio di tutta la sua comunità di fedeli.

Quella mattina l’ho vagheggiato giovane. Magari nato a ridosso del mio anno di nascita, quel ’68 che fu spartiacque sociale e civile e sentì persino, in qualche modo, il vento innovatore del Concilio che si era concluso tre anni prima. Il parroco di san Pietro dovrebbe essere così. Con il sorriso della speranza. Il primo a non far sentire nessun’altro parroco di tutte le 354 parrocchie cattoliche ricadenti all’interno del territorio comunale di Roma Capitale, al di sotto di se stesso quasi che il suo incarico/ruolo fosse, come altri prelati più in alto, un titolo di onorificenza, uno scranno di superiorità. Ho vagheggiato che il parroco di San Pietro potesse aver vissuto i suoi primi decenni, come accadde a me, in quella stessa gioventù francescana ispirata ed innamorata per sempre dello stesso Santo di cui ha voluto portare il nome Papa Bergoglio per la prima volta nella storia dei papi e della Chiesa. Un parroco che venisse dalle terre assai meno note del sud Italia, dalle periferie. E avesse vissuto e forgiato lì la sua vocazione durante i suoi primi decenni di testimonianza e di guida. Magari tra boschi incontaminati, tra rivoli d’acqua nati per caso tracciando solchi in mezzo all’erba di un prato. Sotto il cielo di una natura incontaminata e bella che Francesco d’Assisi aveva lodato come mai prima.

Un parroco umile, mite, coerente, coraggioso. Deciso ad accettare le sfide che la vita e la vocazione gli hanno messo già tra le mani in questi ultimi anni nella stessa capitale della cristianità. Quella Roma che magari potrebbe già aver conosciuto, magari da studente, o da parroco di un’altra parrocchia cittadina anche se per solo qualche lustro. In fondo, accade sempre così. Facciamo cose e ci ritroviamo su strade delle quali nulla abbiamo deciso davvero quando prendiamo una svolta, una decisione di vita. Strumenti siamo tutti nella mani della Vita ed il cristiano, più ancora, lo è nelle mani di Dio per andare dove Dio vuole. Anche Francesco, il papa più rivoluzionario che io abbia mai conosciuto e a cui abbia stretto la mano, era venuto a Roma per stare solo i pochi giorni del suo Conclave. Ma fu eletto Papa e la sua vita improvvisamente cambiò da quel 13 marzo del 2013. Un “percorso” d’esperienza di fede collettiva già scritto nelle lettere di Paolo e anche nel prologo del Vangelo di Giovanni: “In Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). “A quanti però l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

Il parroco di San Pietro l’ho vagheggiato molto poco bigotto e assai impegnato a costruire ponti di vita e di testimonianza con il resto della città eterna e di ogni luogo del mondo dove egli approda. Al fianco di ogni simile che incontra e cerca Dio. Gentile, cordiale, sempre sorridente. Capace di capire e supportare le difficoltà delle tante famiglie che sono nel bisogno perché non hanno soldi né rendite né case proprie né stucchi d’oro in alto. Ma portano avanti con gioia ed immensi sacrifici la propria vita e quella dei figli che mettono al mondo. Non di rado tra crisi, fallimenti, delusioni, derive e ogni sorta di ostacolo che nessuno può capire se non si mette in ascolto, se non ci sta “dentro”, se non si siede accanto a chi è nel mondo laico ed “altro da sé” così distratto, vessato, affaticato e spesso così lontano.

Il parroco di San Pietro l’ho vagheggiato attento a rileggersi ogni tanto il monito di Francesco Bergoglio sui sacerdoti “comodi” come fossero impiegati del culto e con il vezzo di sentirsi spesso più in alto degli altri fedeli laici. Pronto a ripassarsi le stesse parole del Papa argentino, che vede ogni giorno in Vaticano e che il 18 maggio del 2013, durante la sua prima veglia di Pentecoste davanti ai movimenti, alle nuove comunità, alle associazioni e alle aggregazioni laicali disse: “Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un anno: quando tu vai c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno. Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Gesù ci dice: Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo! (cfr Mc 16,15). Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!  Pensate anche a quello che dice l’Apocalisse. Dice una cosa bella: che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro cuore (cfr Ap 3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi questa domanda: quante volte Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per uscire fuori. E noi non lo lasciamo uscire, per le nostre sicurezze, perché tante volte siamo chiusi in strutture caduche, che servono soltanto per farci schiavi e non liberi figli di Dio? In questa “uscita” è importante andare all’incontro; questa parola per me è molto importante: l’incontro con gli altri. Perché? Perché la fede è un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù: incontrare gli altri. Noi viviamo una cultura dello scontro, una cultura della frammentazione, una cultura in cui quello che non mi serve lo getto via, la cultura dello scarto. Ma su questo punto, vi invito a pensare – ed è parte della crisi – agli anziani, che sono la saggezza di un popolo, ai bambini… la cultura dello scarto! Ma noi dobbiamo andare all’incontro e dobbiamo creare con la nostra fede una “cultura dell’incontro”, una cultura dell’amicizia, una cultura dove troviamo fratelli, dove possiamo parlare anche con quelli che non la pensano come noi, anche con quelli che hanno un’altra fede, che non hanno la stessa fede. Tutti hanno qualcosa in comune con noi: sono immagini di Dio, sono figli di Dio. Andare all’incontro con tutti, senza negoziare la nostra appartenenza. E un altro punto è importante: con i poveri. Se usciamo da noi stessi, troviamo la povertà. Oggi – questo fa male al cuore dirlo – oggi, trovare un barbone morto di freddo non è notizia. Oggi è notizia, forse, uno scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia! Oggi, pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia. Questo è grave, questo è grave! Noi non possiamo restare tranquilli”. Questo disse quel giorno Papa Bergoglio e tanto altro.

Il parroco di San Pietro lo vagheggio attento ai tormenti del mondo di oggi. Immagino che possa persino avere un nome profetico. Colto ma mai disposto a fare della sua cultura una vetrina, una barriera, un motivo di vanagloria e persino un vanto. Con una visione d’utopia, la semplicità disarmante e la forza grande che viene dallo splendore di voler aprire nuove strade di vita e di fede tracciate già nel Vangelo duemila anni fa ma sempre attuali. Un parroco capace di suscitare attorno a sé entusiasmi rinnovati, la credibilità dei veri testimoni di fede, la capacità di andare a “pescare” tutti quelli che potrebbero essere altro sale, altre braccia e forza ulteriore nelle pieghe della Vita di ogni dove che deve ancora venire. Un parroco che non voglia mai trasformarsi in una “star” mediatica solo per essere a capo della più nota e prestigiosa parrocchia che è al mondo. Un parroco che sappia fare della sua stagione di vita un luogo di fraternità e di preghiera autentica come, magari, ha già fatto tante volte altrove. Un parroco che alle 12 in punto, magari, arrivi davanti alla tomba di San Pietro, per poter rinnovare assieme a turisti e ai fedeli capitati lì a quell’ora per caso le ragioni della fede cristiana.

Sotto l’arte di Bernini davanti al Santissimo Sacramento dove stamane mi sono seduto e ho vagheggiato il profilo del parroco di San Pietro, la perfetta bellezza si è fatta perfetta letizia. Reminiscenza di radici e della stessa visione francescana che mi porto dentro. Chissà. Magari lo incontro oggi un parroco di San Pietro così vagheggiato. Esattamente siffatto. Che abbia un volto a me assai noto su cui poter (ri)leggere, oltre i cinquanta di entrambi, lo stesso entusiasmo che ci accomunò durante la nostra prima giovinezza che fu del canto, della fraternità, della preghiera e della perfetta letizia. Dei tanti amici in comune e di tutti gli angoli di quel mondo da cui veniamo entrambi lì dove Francesco d’Assisi ci unì volgendo a noi il suo sguardo. Sarebbe davvero fantastico: una piccola, grande rivoluzione silenziosa e potente in questi tempi così difficili e inqueti!

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