Vi spiego perché molte aziende non sanno valorizzare le proprie risorse umane

Imprenditori più o meno organizzati, società (vecchie o nuove che siano), piccole e medie imprese: il panorama dell’economia italiana è fitto di esempi. Molte di esse sono imprese a struttura familiare venute su con il talento e la tenacia di chi le volle far nascere. Altre hanno un Consiglio di Amministrazione e sono società composte da più componenti. Eppure ad accomunare ciascuna delle realtà d’impresa italiane (e non solo) resta il tema (ed il problema) delle risorse umane e della loro gestione ma soprattutto della loro valorizzazione. Con il difetto, tipicamente italiano, a non saper fare della meritocrazia un metro di misura. A dover far entrare nelle proprie imprese, sotto pratiche clientelari e della raccomandazione, figure che non danno nessun valore aggiunto. Togliendo, intanto, o non vedendo affatto il valore alle proprie risorse interne a favore di “pseudo” professionisti che dall’esterno arrivano e vengono percepiti come veri e propri “guru” che nulla danno in più ma molto prendono in danaro e considerazioni. Ecco un mio breve “dipinto” di quel che sul tema accade davvero…


Una persona a me molto cara mi raccontava che il suo papà diceva “tu devi sapere che i soldi contati non sono mai abbastanza!“. Mi fece quell’esempio per dire che il lato più debole di chi lavora a stipendio ed è all’interno di ognuna delle 391.332 imprese attive (tante se ne contano alla data del 30 marzo 2023 negli archivi della Camera di commercio) è che la sicurezza di avere un fisso mensile diventa anche la “zona di conforto” per dare solo quel minimo che occorre dare sul posto di lavoro. Così son partito da quel dato e da quella frase raccontatami per caso per arrivare, lungo un percorso che mi vede ogni giorno impegnato a cercare e a dare motivazioni convincenti ai tanti lavoratori con i quali ho modo di interagire, al tentativo di sciogliere tutti i nodi che vengono al pettine di tantissime aziende d’Italia. Qualcuno, di certo, si impegna a sciogliere quei nodi. Altri nemmeno li vedono. Eppure tanta parte dell’efficienza e del miglioramento delle imprese italiane è ostacolato proprio dalla incapacità di gestire e valorizzare le proprie risorse umane interne. Persone e professioni che essendo così vicini e prossimi (anche fisicamente) al proprio datore di lavoro diventano “routine”, elementi di normalità all’interno del proprio scenario d’impresa. Dei quali, troppe volte e paradossalmente, non si conosce, per intero e davvero, nemmeno tutto ciò che hanno fatto prima di arrivare in azienda né ciò che fanno oltre il lavoro che svolgono una volta entrati nella propria impresa.

Il tema affascina molti imprenditori. Molti di quelli che dicono “noi amiamo far crescere le professionalità interne” sono spesso attenti ad usarlo anche con le proprie risorse umane. Ma il fascino e la buona volontà restano troppe volte solo una bella teoria che non riesce a dare frutto quando dalle buone intenzioni occorre passare alle prassi in grado di valorizzare davvero e motivare le proprie “risorse” interne. Il fenomeno non si spiega solo osservando la natura delle imprese italiane. Il 65/% delle imprese italiane è di tipo familiare e, secondo il Global Family Business, l’Italia si colloca al settimo posto tra i Paesi che ospitano le prime 500 società familiari al mondo. Sicché, che molte di esse siano a conduzione familiare e per quanto il “sentirsi in famiglia” sia la forza stessa di tante aziende in Italia, dall’altra parte quella natura, tante volte troppo familistica, presenta il conto in negativo. L’incapacità d andare oltre la logica dei familiari più stretti per capire come dare a coloro che lavorano nella propria azienda il valore, il ruolo e la considerazione che le proprie risorse umane meriterebbero. La tendenza a coltivare il mito ed il culto del fondatore e della cerchia di persone da lui più considerate o non più considerate. Le dinamiche perverse e di potere che nascono all’interno dei Consigli di Amministrazione quando l’impresa è articolata in maniera più complessa e deve scegliere le persone di cui fidarsi. Lo stile talvolta troppo padronale quando sotto di esso nessuno/a osa, tra le figure professionali interne, fare qualcosa di più o di diverso dal solito se non vuole o non piace al proprio datore di lavoro, alla compagine familiare che guida la propria azienda anche quando il datore di lavoro/famiglia ne sa molto meno del lavoratore o della lavoratrice che potrebbe portare innovazione ma si arrende e cede al minimo ostacolo. Un deriva che si complica ancora di più quando (che sia compagine familiare o impresa con struttura più complessa e più ampia) arriva dall’esterno il solito esperto di turno che non di rado prima ancora del suo arrivo è protetto, segnalato e raccomandato da qualcuno anch’egli esterno con cui occorre essere disponibili. Un “esperto” che spaccia competenze e fascini in grado di vendere e guadagnare danaro e considerazione assai più cospicue di quelle che, in realtà, dovrebbe avere e il cui arrivo è figlio di un ragionamento che molte volte le aziende giustificano in vario modo: 1) perché fa sempre molto appeal avere, per un po’ o per molto, il consulente esterno di turno dalle spacciate e spiccate competenze; 2) perché pagare anche molto di più qualcuno per fare qualcosa che potrebbe fare tranquillamente una risorsa umana interna si giustifica come un costo occasionale convinti che esternalizzare servizi e produzioni diventa, per tante aziende italiane, persino preferibile quando si pensano ai costi del proprio personale, ai problemi che puoi avere quando non ti piace più il servizio, la persona o il bene che produce e puoi mandarlo a casa comodamente se è un esperto esterno. In realtà molte aziende ignorano o non hanno davvero fatto bene i calcoli con i costi che sono enormemente superiori quando si esternalizzano servizi e competenze invece di “attivare” professionalità e nuove acquisizioni al proprio interno.

Resta un’evidenza che in pochi sanno mettere in pratica: che dare considerazione e valore a coloro che lavorano per la tua azienda è un tema cruciale. Qualcosa che può cambiare prospettiva e donare forza al percorso che un’azienda può fare, alla sua stessa crescita. Che non si tratta di un impegno che costringe l’azienda a dare una maggiore retribuzione che pure conta e motiva. Quanto piuttosto della capacità di saper riconoscere i talenti “nascosti” e non nascosti che sono tra le persone che lavorano al proprio interno. Si tratta di sfruttare, nel senso più leale e nobile del termine, le competenze, gli studi e le esperienze professionali fatte dalle proprie risorse interne prima di arrivare ad essere parte integrante dell’azienda a cui quel lavoratore, quella lavoratrice ha deciso di appartenere. La forza di un’azienda sta tutta qui: in quel virtuoso sodalizio che si deve creare tra se stessa e i propri lavoratori. Un legame di fiducia e di stima che non deve mai consentire la mortificazione, persino la denigrazione sussurrata in assenza, di ciascuna delle persone e dei ruoli che essi sono stati chiamati a svolgere tante volte sotto quella larvata e nemmeno tanto nascosta subordinazione mentale. Quando quel sodalizio resta forte e praticato non si consente nemmeno che quel lavoratore, quella lavoratrice entrato/a in un’azienda, una volta “conquistato” il suo contratto a tempo indeterminato, possa ritenere più saggio mettersi comodo a dare e fare il minimo possibile, a risparmiarsi sempre di più che “tanto c’è l’esperto esterno di turno” che in dieci giorni guadagna ciò che una risorsa interna in grado di fare esattamente le stesse cose guadagna in un anno con tanta meno considerazione.

Quando accade che l’azienda non sa riconoscere il valore di coloro che ha in organico quell’azienda presta il fianco a ciò che giudico come il maggior danno che si possa fare ad un’azienda: non consentire che i propri lavoratori abbiano passioni, né sentano stimoli dentro di sé, l’orgoglio ed il valore di un’appartenenza, di una crescita umana e professionale che accade sul campo. Negando in questo modo lo stesso virtuosismo e tutta la bellezza che c’è nel legame tra un’impresa ed i suoi lavoratori che, in questi casi, solo per comodità e conforto restano all’interno dell’azienda a dare e fare il minimo possibile.

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