Quando Peppino Impastato diceva …

L’8 dicembre del 2015 Aldo Penna scriveva su “La Voce di New York” un articolo “scomodo”. Parlava di Peppino Impastato della sua Sicilia e della grande eredità morale ed umana che il giornalista ucciso dalla mafia che aveva combattuto ha lasciato a tutti noi. Ho ritrovato quella riflessione di Aldo Penna pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario di gennaio che ricorda la nascita del grande Peppino, visionario, tenace che non ebbe paura di affrontare i tema della mafia e i modi con cui essa potrebbe essere distrutta. Peppino Impastato fu ucciso lo stesso giorno in cui, dieci anni prima, io sono venuto al mondo. Lo uccisero il 9 maggio del 1978 e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino stavano nel pieno del loro impegno umano e professionale che avrebbe portato al maxi processo di Palermo. Ecco la riflessione che Aldo Penna fece, nel 2015, di Peppino Impastato con tutto il pregio che traspare in ogni sua parte…


Da qualche giorno sulla rete impazza la polemica su una frase che Roberto Vecchioni ha pronunciato a Palermo. Noi, invece, proveremo a ragionare su una frase di Peppino Impastato, il giovane siciliano ammazzato dai mafiosi nel lontano 1978

“Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!”.

Ecco, se invece di scrivere Sicilia, Vecchioni avesse indicato, come Peppino Impastato, già nel nome un responsabile del degrado, dell’arretratezza, dell’assenza di speranza, il coro del consenso si sarebbe levato molto forte accomunando nello stesso applauso eserciti di sinceri e robuste legioni di ipocriti.

02_1321_x_1762-768x1024 Quando Peppino Impastato diceva ...

Perché nella sostanza le due grida non sono dissimili. Quando ogni giorno camminiamo vergognandoci per le strade sporche, per i disservizi nella sanità, per il nepotismo imperante, le corporazioni non scalfibili, il tradimento di uomini e donne preposte per difenderci e da cui invece dobbiamo difenderci, quando vediamo i nostri figli sparire dentro la pancia di un aereo che li porterà lontano verso nuove opportunità, quelle parole le abbiamo usate anche noi.

Molti Paesi e molte regioni hanno trascorsi di grandezza e un presente di rovine. E in tutti questi territori si sono create profonde diseguaglianze, classi di privilegiati e incapacità, anche dei maggiori campioni del riscatto sociale, a incidere in profondità sulle cause.

E la vulgata di regimi che si sovrappongono, e a vicenda si sostengono, spesso cattura le nostre attenzioni per i meschini teatrini di una politica autoreferenziale, una burocrazia dorata e irresponsabile, la giungla del parassitismo che condiziona in peggio tanti servizi e dilapida preziose risorse. E quando anche la mafia in affanno, ma non vinta, risorge attraverso l’emulazione dei sui codici da parte di significative parti degli ufficiali nemici, ci si accorge che un fato oscuro nutrito dall’assuefazione e dalla rassegnazione rischia di rendere perenne un clima che è solo conseguenza dell’agire umano.

Paradisi naturali e grandiose testimonianze culturali sono un inferno sulla terra per le popolazioni civili sottoposte a vessazioni, rapine e in ultimo costrette all’esodo. Dal vicino Oriente oggi ai dirimpettai d’oltre adriatico ieri, è emergenza continua provocata dai disastri compiuti da chi amministra.

In Sicilia possiamo invocare la storia millenaria, un patrimonio culturale inestimabile, un contesto paesistico unico, ma sono 150 anni che inseguiamo un Nord sempre più veloce arrancandogli dietro senza fortuna. Centocinquanta anni in cui la mafia da campestre si è fatta cittadina e da supporto ai nobilotti si è trasformata in classe di governo. Centinaia di uomini e donne coraggiosi sono morti, ma i figli di questa terra continuano ad andarsene.

Perché pur con le stesse risorse le nostre scuole, gli ospedali, gli asili, l’assistenza agli anziani, ai disabili, sono resi a standard molto inferiori? Perché le città deturpate dalla speculazione edilizia oggi sono offese dall’incuria e dall’abbandono?

Perché i rifiuti da preziosa risorsa da utilizzare sono la putrescente palla al piede di vasti territori siciliani? Perché si consente a una burocrazia numerosa come un Paese vasto dieci volte e pagata come nababbi di continuare a percepire premi senza un corrispettivo in risultati raggiunti?

Ancora: perché si preferisce mantenere piccoli eserciti di precari utilizzabili per le proprie guerre private elettorali invece di fornire ammortizzatori sociali equi e giusti? Perché le grandi risorse che pur abbiamo sono utilizzate male, e spesso con una regia totalmente estranea alla Sicilia?

Ecco, forse la frase del cantautore serve a riportare al centro la domanda che disperatamente Peppino Impastato rivolgeva ai suoi ascoltatori parlando di mafia e che oggi potrebbe valere parlando di classe politica, burocratica, imprenditoriale: “Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!”.

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La mamma di Peppino Impastato

Allora l’appello è ai siciliani, alla gente che ogni giorno fatica e sogna, alla tanta gente che desidera normalità, agli amministratori di ogni livello di governo che sono stati eletti per cambiare e alla fine vogliono solo durare assistendo al perpetuarsi dei disservizi, senza il coraggio di affrontare in maniera dura il nocciolo dei problemi. Ai tanti burocrati per bene su cui, nel fallimento della politica, si addossa gran parte dell’onere di far girare una pigra ‘macchina’ amministrativa e che restano passivi e inerti, ai tanti dirigenti indifferenti ai destini della società che produce e langue per i bandi che non arrivano, le graduatorie che non si fanno, le erogazioni che ritardano, protetti dalla calda certezza di un fine mese assicurato.

Agli imprenditori che hanno creduto più profittevole farsi garantire privilegi invece che inventare mercato. Che magari si indignano in pubblico e poi cercano protezioni o guarentigie in privato. Alla Sicilia che si arrabbia per una frase, ai siciliani che pensano offesa la propria terra, ai moltissimi che vogliono cambiare, la risposta: “Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente! “.

A Peppino non dispiacerebbe.

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